In azienda non è possibile installare programmi non approvati o utilizzare il dispositivo per fini personali

Ormai gli strumenti di lavoro digitale sono diventati di utilizzo comune. Una politica attuata da sempre più aziende è quella del BYOD. L’acronimo sta per “Bringyourowndevice“, ovvero “porta il tuo dispositivo”.

Soprattutto le piccole e medie imprese, infatti, non forniscono ai lavoratori un computer su cui lavorare. In questo caso, il portatile privato diventa anche uno strumento di lavoro.

Non sempre è così, ovviamente: tanti altri imprenditori, invece, forniscono ai propri lavoratori un computer su cui lavorare.

LA DECISIONE DELLA SUPREMA CORTE

In questo caso, a differenza della politica BYOD, il portatile è uno strumento aziendale e come tale dev’essere utilizzato. Non si può, dunque, installare programmi non approvati o utilizzare il dispositivo per fini personali.

Una recente sentenza ha statuato che ora gli imprenditori possono agire così per chiedere i danni e la Cassazione conferma, specie se si tratta di ex-dipendenti.

Il caso preso in esame dagli Ermellini è stato quello di un dirigente che, dopo essersi dimesso dall’azienda dove lavorava, ha riconsegnato il computer aziendale formattato e “ripulito” da tutti i dati.

Il comportamento ha messo in allarme l’imprenditore anche a seguito di alcuni sospetti pregressi. Così, l’azienda, avvalendosi di periti informatici, ha fatto ripristinare i dati sul computer riconsegnato e ha scoperto diversi comportamenti illeciti.

ORA GLI IMPRENDITORI POSSONO AGIRE COSÌ PER CHIEDERE I DANNI E LA CASSAZIONE CONFERMA

Il computer aziendale, infatti, nascondeva le prove per cui il dirigente avrebbe passato informazioni riservate ad aziende rivali tramite Skype. Si tratta di un comportamento potenzialmente illecito che viene configurato come condotta infedele.

Alla luce di queste novità, la società ha quindi deciso di agire in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni causati dalla sua condotta. I giudici d’appello non hanno, però, accettato le richieste, motivando la decisione con l’impossibilità di usare i dati recuperati, ottenuti con modalità non consentite dalla disciplina del lavoro e da quella penale.

Il passaggio in Cassazione ha però sovvertito, con la sentenza numero 33.809 del 2021, la decisione dell’appello. L’acquisizione dei dati, per la Suprema Corte, è fattibile anche con le modalità avvenute nel caso di specie, in quanto bilanciano i diritti di difesa e di tutela della riservatezza.

Quindi, per gli Ermellini è sempre possibile, sul piano processuale, la produzione di documenti utili al diritto di difesa: questo anche quando contengano dati personali e in assenza del consenso del titolare.

Se il datore di lavoro, dunque, decidesse di controllare il PC e così facendo scoprisse documenti privati rilevanti per dimostrare l’infedeltà del lavoratore, potrebbe comunque farne uso per tutelarsi e chiedere i danni.

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